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Non si sa dove posare l’occhio qui dentro, tant’è pieno di cose, quadri da finire vecchi e nuovi, colori e pennelli sparsi nel disordine di anni e soprattutto immondizia e polvere a volontà.
Come un viaggiatore allenato a parlare più lingue, nel mio lavoro c’è posto per tutte le sollecitazioni e per nessuna. Sono abituato a lavorare pensando al linguaggio, al suo raffinarsi nel tempo, non allo stile, quello ne è figlio. Mi avvicino a Schianto, un opera che sto terminando, Edith, una mia amica, la chiama così. È la vera carcassa di un cane, molto simile al mio Kim, morto tanti anni fa cadendo in un pozzo, che ho recuperato su indizio del mio amico architetto Gino Zoli.
Cosa significa tutto questo? Cos’e’ questa brama di esporre la morte? Non lo so che cos’è, ma mi sto dedicando a questo tema da trent’anni, nei pensieri soprattutto: un controllo dell’ iconotanatofonia se si può dire, un concerto di intenti espressivi sull’immagine e sul suono di cio che saremo.
Mio padre se ne andò mentre ritraevo il suo ultimo respiro con un sottile lapis. Quello che rimane su quel foglio è il magro segno della morte, che pone fine alle abitudini. Un risultato artistico a confronto con la normale conclusione di una vita umana dopo lunga malattia. Kos, la rivista medica di Franco Maria Ricci, mi piaceva per quella studiata, surreale abitudine editoriale di descrivere una patologia affiancandoci in muta interazione una immagine d’arte. Una neoplasia addominale e l’Annunciazione di Antonello da Messina, una dissertazione sulla TBC e un quadro di Pollock, lo studio su una proteina e La zingarella di Modigliani. L’Arte e la Scienza, il tesoro dell’ l’umanità. La rivista mi faceva bene sperare e mi abbonai ad essa. Mi deliziavo con le immagini di strumenti chirurgici nella loro evoluzione nei secoli e, parallela, l’avventura dell’Arte dall’inizio del tempo. La modalità random con la quale erano comparate figure e testi sembrava essere frutto di un lancio di dadi in redazione: tutto ciò rendeva la rivista unica ed in anticipo sui tempi. Isidore Ducasse avrebbe detto:
Bella come l’incontro fortuito di una macchina per cucire e di un parasole su di un tavolo operatorio.
Ancora oggi, agli strumenti propri della mia arte, spatole, pennelli ed affini, attribuisco qualità chirurgiche, con le quali elimino le imperfezioni di cui l’idea si contamina ed ammala viaggiando dal mio cervello allo spazio nel quale essa, si sviluppa e vive. L’interessante esperienza fatta anni prima come apprendista cerusico presso una clinica privata lasciò dentro di me uno smisurato iconografico amore per bisturi, pinze di Cocker, Moschino, tubi di drenaggio e via dicendo. Non proseguii gli studi per svariati motivi, ma quel mondo e quell’atmosfera mi sono rimasti dentro e vivono nel mio essere artista in forma di frequenti e variegati segnali. Certi abituali movimenti propri del mio lavoro ed il modo di disporre i miei " ferri "da pittore provengono più dal mondo medico che dalla frequentazione di studi d’Arte. Molte mie opere, nell’immagine o nei titoli, rimandano direttamente a patologie e modalità di intervento, chirurgico e non. Lavori come Il cerusico mancato, vasectomia prossima ventura, angiopatia mitralica di tipo orientale, chirurgia d’urgenza, anamnesi e stato presente portano dritto a quelle esperienze anche se l’opera, nel suo comporsi, mostra spesso tutt’altro. Per due anni, due volte a settimana, martedi e venerdi, in quella clinica, dove fui mascotte, si operava. Fui sempre puntualissimo a godere di quella ritualità, a cominciare dalla preparazione dell’equipe del prof. Romeo Liberi, incrocio fra la vestizione di un torero ed un consesso di asceti. Io, svogliata matricola, figlio di un ricoverato terminale in quello stesso luogo fui introdotto in sala operatoria come auditore, insieme ai figli di un parente medico oggi medici anch’essi, che li esercitava. La mia "prima volta", un’appendicite, mi sentii mancare. Il professor Liberi scherzò sui miei capelli da marine e tutto finì a ridere. In me si dissolse il mito cinematografico della sala operatoria immersa sempre e soltanto nel più metafisico e verde dei silenzi. In tutta quella sacralità c’era tempo e modo per due chiacchiere ed anche per una sana parolaccia al presentarsi di un imprevisto.
Il Prof. Liberi che chiamo Maestro, sembrava un violinista con quel catgut fra le mani, piccole e bellissime, nervose e coi pollici bassi, con le quali suturava di sicurezza i pazienti. Guardarlo era una lezione di stile che non ho mai dimenticata, nell’affetto e nella immutata stima che conservo per questa persona. Non sarebbe stato quello il mio mestiere, fra l’altro ero solito sovrappore nei miei pensieri l’immagine del tavolo operatorio a quello del tavolo da biliardo. Il colore che li accomuna avvolse tutto, rimase nei miei occhi e nelle mie idee, che avrei in seguito curate ed espresse per mezzo della mia disordinata chirurgia d’artista. In qualche modo ho accontentato i miei genitori, che mi volevano medico. O forse cerco di affievolire il mio senso di colpa nei loro confronti.
E’ forte la tentazione ad abbandonarsi a parlar d’Arte, cedere alla lusinga di voler approfondire anche verbalmente dei concetti, precisare i pensieri erranti raggruppandoli in teorie astratte da trasformare in azioni estetico-dialettiche che mostrino, e via dicendo, ma preferisco farlo con gli strumenti a me più adatti e lasciare le parole agli addetti ai lavori, a coloro che vivono di questo. Amo dipingere storie con la mia Arte, ma non raccontare di essa, quello viene da sé. Non mi interessa narrare la storia della pittura, o delle sue tecniche, ho scelto di rappresentarmi in un linguaggio, non in una esposizione filologica di maniere e materiali. Le mie opere raccontano direttamente anche quando, dai titoli, così non sembra. L’insidioso L’Arte della fuga, per esempio, superficie acuminata da vetri spezzati ed indiretto omaggio a J.S. Bach, la cui musica mi accompagna da sempre per il suo cristallino esplodersi in trasparenze colorate, narra in realtà della abilità concessa ad alcuni, di saper sfuggire fisicamente all’effetto di un ostacolo imprevisto o di un improvviso pericolo.
Un idea fin quando rimane confinata nelle regioni del nostro pensiero e non viene confutata da alcuno ne toccata da alcunché conserva tutti i parametri della non contaminazione. Rimane un idea pura. E’ il contatto con l’esterno a modificarla, e ciò che credevamo perfetto potrebbe non esserlo più, ma non per questo meno apprezzabile…mi spiego
Ognuno di noi porta dentro di se un idea della perfezione, quel tendere a far sempre meglio ciò che si intraprende, migliorare fino allo spasimo la nostra prestazione qualunque sia l ‘argomento e dirsi soddisfatto del risultato ottenuto. Salvador Dalì consigliava di non inseguire la perfezione, neanche nell ‘idea, tanto non esiste, meglio lasciar perdere quella fata morgana che sembra accondiscendere per poi allontanarsi a qualunque avvicinarsi.Marcello Mastroianni sornionamente si teneva in “sospensione molecolare”affermando senza falsa modestia d’esser troppo talentuoso per essere un dilettante e troppo poco per essere un professionista…tutto ciò indica che la perfezione o meglio l idea che abbiamo di essa e’ suscettibile di una serie infinita di delicate nuance alle quali accostarsi.
Per un artista migliorare e migliorarsi continuamente e’ il pane da guadagnare ogni giorno per evitare la miseria di quella menzogna che e’ la verità’ finita, oggi soprattutto teletrasmessa, oltre la quale gli sprovveduti non vanno e non sanno, rimanendo prigionieri di quella menzogna. Per ciò che mi riguarda seguo il consiglio del divino Dali’ a non perdermi in questi pensieri e mi accordo al saggio collocarsi fra due sponde dell’immenso Marcello.
Questo piccolo prologo prelude alla presentazione di I.D.D.I., nei dialetti del Sud Italia significa “ Loro ”, nello specifico sono quadri, miei, una serie di opere al quale ho dedicato un posto speciale nel mio cuore per non disperderne la peculiarità’.
I.D.D.I. è acronimo di Inutili Delizie Delicatamente Imperfette. Sono opere di varia fattura e soggettario alle quali non manca nulla per dirsi “ perfette ” o imperfette, sotto nessun punto di vista e sono assolutamente affiancabili ad altri miei lavori senza sfigurare o differenziarsene negativamente per qualità di pensiero o tecnica di esecuzione. La loro trascorsa condizione li ha indeboliti, come fossero ammalati: decenni di incauto abbandono, non da me voluto, in luogo mal riparato ed esposti ad intemperie e sollecitazioni d ogni tipo. Vissero quel tempo tra furtivi animali in circolazione, detriti e polvere spostati dal vento, accidentali cadute di liquidi o altro a grave danno per materiali già lavorati ed idee già’ nate. Ad uno ad uno li ho curati, restaurati, continuati nella creazione in interazione con l’ idea originale o meno ed amati fino a renderli degni degli altri anzi forse addirittura prediletti ai miei occhi e…guardandoli nel tempo neanche io potrei riconoscere il pulcino malato d’una volta che il mio amore ha trasformato in un bellissimo cigno…